sabato 26 gennaio 2013

Django Unchained: Tarantino rilancia il Western


1858, Texas. Due mercanti di schiavi si imbattono in un cacciatore di taglie originario della Germania, il dottor King Schultz (Christoph Waltz). L’uomo costringe i due schiavisti, con l’uso della forza, a vendergli uno schiavo nero, Django (Jamie Foxx). Schultz intende servirsi di quest’ultimo per riconoscere i fratelli Brittle, dei fuorilegge che sta cercando, garantendo in cambio allo schiavo la libertà e una ricompensa. Durante il viaggio, i due stringono amicizia e Schultz scopre che Django, una volta libero, vuole ritrovare la moglie Broomhilda, da cui è stato brutalmente separato alla piantagione dove lavorava precedentemente. Uccisi i tre fuorilegge, il dottore, avendo notato in Django un talento naturale con le armi da fuoco, gli propone di diventare socio in affari e promette di aiutarlo a ritrovare la moglie. I due scopriranno che la donna è stata venduta a Calvin Candie (Leonardo Di Caprio), ricco latifondista del Mississippi. Django e Schultz escogitano dunque un piano per liberare Broomhilda, ma la missione si rivelerà più rischiosa del previsto.
Il cinema western è il prodotto più autentico della cultura americana. È un genere nobile, nato con il cinema, e per gran parte del secolo scorso ha rappresentato meglio di ogni altra forma d’arte e spettacolo i valori e gli ideali del sogno americano. Non si può negare, tuttavia, la persistenza, nel cinema western classico (quello di Hawks e di Ford, per intenderci) di contenuti fortemente discutibili, legati al razzismo nei confronti degli indiani e all’uso, sovente acritico, della violenza. E se lunga e faticosa è stata la strada per riabilitare i poveri pellerossa nell’universo cinematografico, ancora più tempo c’è voluto perché negli epici racconti sul mito della frontiera si cominciasse a mettere in discussione l’idea di una violenza “giusta”, perché esercitata da cowboys portatori dei sani valori americani, e l’uso del sangue e delle sparatorie come elementi gratuiti di spettacolo. 
Il primo a rivedere in maniera critica i principi fondanti del genere è stato proprio il “padre” del western, quel John Ford che in “Ombre rosse” aveva lanciato, per la prima volta, la leggenda di John Wayne, del pistolero senza macchia e senza paura e delle appassionanti battaglie tra il bene (gli yankies) e il male (gli indiani) nella Monument Valley: venti anni dopo, in “Sentieri Selvaggi”, quella distinzione manichea tra bene e male era sparita, e il pistolero di Wayne diventava una tragica figura di solitudine e dolore. La violenza, per la prima volta, veniva raccontata sottolineandone tutta l’assurdità e la follia. Poi sono venuti Leone (e i suoi proseliti del filone “spaghetti western”), Peckinpah e gli “Unforgiven” di Eastwood, che hanno spogliato il West di ogni mitologia ed incanto. Grandi autori, certo, e grandi film, che hanno però avviato il genere verso un autunno di tristezza e disincanto, causando il disinteresse del pubblico.
Ci voleva quel furbastro di Tarantino per ridare al cinema western quella linfa vitale che da anni mancava, attraverso una sana dose di ultra- violenza gratuita. L’incursione dissacrante e granguignolesca del regista di “Pulp Fiction” nel mito del West è talmente gustosa per lo spettatore da riscattare l’evidente, ormai da anni, stanchezza e ripetitività dell’universo tarantiniano, con il suo solito miscuglio di generi e le stucchevoli citazioni “stracult”. Per una volta, Tarantino riesce davvero a proporre al pubblico uno spettacolo onesto e divertente, anche se rimane l’impressione di un autore e di uno stile che lasciano il tempo che trovano. Gli attori, comunque, se la cavano tutti egregiamente: Samuel L. Jackson è impeccabile come sempre, mentre Leonardo Di Caprio gigioneggia magnificamente negli insoliti panni di cattivo, costruendo un personaggio memorabile. L’insipido belloccio di “Titanic” è diventato col tempo un grande attore, aveva ragione Scorsese.





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