1858, Texas. Due mercanti di schiavi si imbattono in un
cacciatore di taglie originario della Germania, il dottor King Schultz (Christoph Waltz). L’uomo
costringe i due schiavisti, con l’uso della forza, a vendergli uno schiavo
nero, Django (Jamie Foxx). Schultz
intende servirsi di quest’ultimo per riconoscere i fratelli Brittle, dei
fuorilegge che sta cercando, garantendo in cambio allo schiavo la libertà e una
ricompensa. Durante il viaggio, i due stringono amicizia e Schultz scopre che
Django, una volta libero, vuole ritrovare la moglie Broomhilda, da cui è stato
brutalmente separato alla piantagione dove lavorava precedentemente. Uccisi i
tre fuorilegge, il dottore, avendo notato in Django un talento naturale con le
armi da fuoco, gli propone di diventare socio in affari e promette di aiutarlo a ritrovare la moglie. I due
scopriranno che la donna è stata venduta a Calvin Candie (Leonardo Di Caprio), ricco
latifondista del Mississippi. Django e Schultz escogitano
dunque un piano per liberare Broomhilda, ma la missione si rivelerà più rischiosa
del previsto.
Il cinema western è il prodotto più autentico della cultura
americana. È un genere nobile, nato con il cinema, e per gran parte del secolo
scorso ha rappresentato meglio di ogni altra forma d’arte e spettacolo i valori
e gli ideali del sogno americano. Non si può negare, tuttavia, la persistenza,
nel cinema western classico (quello di Hawks e di Ford, per intenderci) di contenuti
fortemente discutibili, legati al razzismo nei confronti degli indiani e all’uso,
sovente acritico, della violenza. E se
lunga e faticosa è stata la strada per riabilitare i poveri pellerossa nell’universo
cinematografico, ancora più tempo c’è voluto perché negli epici racconti sul
mito della frontiera si cominciasse a mettere in discussione l’idea di una
violenza “giusta”, perché esercitata da cowboys portatori dei sani valori
americani, e l’uso del sangue e delle sparatorie come elementi gratuiti di
spettacolo.
Il primo a rivedere in maniera critica i principi fondanti del
genere è stato proprio il “padre” del western, quel John Ford che in “Ombre
rosse” aveva lanciato, per la prima volta, la leggenda di John Wayne, del
pistolero senza macchia e senza paura e delle appassionanti battaglie tra il
bene (gli yankies) e il male (gli indiani) nella Monument Valley: venti anni
dopo, in “Sentieri Selvaggi”, quella distinzione manichea tra bene e male era
sparita, e il pistolero di Wayne diventava una tragica figura di solitudine e
dolore. La violenza, per la prima volta, veniva raccontata sottolineandone
tutta l’assurdità e la follia. Poi sono venuti Leone (e i suoi proseliti del
filone “spaghetti western”), Peckinpah e gli “Unforgiven” di Eastwood, che hanno
spogliato il West di ogni mitologia ed incanto. Grandi autori, certo, e grandi
film, che hanno però avviato il genere verso un autunno di tristezza e
disincanto, causando il disinteresse del pubblico.
Ci voleva quel furbastro di Tarantino per ridare al cinema western quella linfa vitale che da anni mancava, attraverso una sana dose di ultra- violenza gratuita. L’incursione dissacrante e granguignolesca del regista di “Pulp Fiction” nel mito del West è talmente gustosa per lo spettatore da riscattare l’evidente, ormai da anni, stanchezza e ripetitività dell’universo tarantiniano, con il suo solito miscuglio di generi e le stucchevoli citazioni “stracult”. Per una volta, Tarantino riesce davvero a proporre al pubblico uno spettacolo onesto e divertente, anche se rimane l’impressione di un autore e di uno stile che lasciano il tempo che trovano. Gli attori, comunque, se la cavano tutti egregiamente: Samuel L. Jackson è impeccabile come sempre, mentre Leonardo Di Caprio gigioneggia magnificamente negli insoliti panni di cattivo, costruendo un personaggio memorabile. L’insipido belloccio di “Titanic” è diventato col tempo un grande attore, aveva ragione Scorsese.
Ci voleva quel furbastro di Tarantino per ridare al cinema western quella linfa vitale che da anni mancava, attraverso una sana dose di ultra- violenza gratuita. L’incursione dissacrante e granguignolesca del regista di “Pulp Fiction” nel mito del West è talmente gustosa per lo spettatore da riscattare l’evidente, ormai da anni, stanchezza e ripetitività dell’universo tarantiniano, con il suo solito miscuglio di generi e le stucchevoli citazioni “stracult”. Per una volta, Tarantino riesce davvero a proporre al pubblico uno spettacolo onesto e divertente, anche se rimane l’impressione di un autore e di uno stile che lasciano il tempo che trovano. Gli attori, comunque, se la cavano tutti egregiamente: Samuel L. Jackson è impeccabile come sempre, mentre Leonardo Di Caprio gigioneggia magnificamente negli insoliti panni di cattivo, costruendo un personaggio memorabile. L’insipido belloccio di “Titanic” è diventato col tempo un grande attore, aveva ragione Scorsese.
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